I

INTRODUZIONE ALLE CANZONI DEL 1821-22

Al di là del ciclo di idilli del ’20-21 che si era venuto come svuotando di forza poetica lentamente diluendosi fino alla Vita solitaria, il Leopardi riprende una prospettiva di poesia certamente piú energica e piú profondamente legata a elementi centrali della sua esperienza, della sua situazione, del suo pensiero in sviluppo. Sicché per avvicinarsi a queste nuove poesie (cioè al ciclo cosí importante delle sei canzoni che vanno da Nelle nozze della sorella Paolina ad A un vincitore nel pallone, Bruto minore, Alla Primavera, o delle favole antiche, l’Ultimo canto di Saffo, e infine l’Inno ai Patriarchi, o de’ principii del genere umano), occorrerà anche rifarsi a un esame, per quanto rapido possibile, sia della situazione biografica e interiore del Leopardi, in questi anni tra il ’20 e il ’21, servendoci dell’epistolario, sia dello svolgimento del suo pensiero e della sua esperienza interiore, servendoci dello Zibaldone.

Soprattutto sarà importante riferirsi allo Zibaldone, che proprio in questo periodo ha avuto un’enorme espansione, se si considera che i pensieri che arrivano sino alla fine del ’21-22 occupano quasi la metà dell’intera stesura dello Zibaldone stesso. È infatti con il pensiero elaborato nelle fittissime annotazioni dello Zibaldone che i Canti, da Nelle nozze della sorella Paolina fino all’Inno ai Patriarchi, hanno un fortissimo raccordo.

Naturalmente non si tratta di un raccordo meccanico: cioè, da una parte, il pensiero che si svolge nello Zibaldone, e, dall’altra, poi, la traduzione in poesia. Si tratta piuttosto di una forma di collaborazione tra il pensiero leopardiano documentato dallo Zibaldone e la poesia di questi canti, un rapporto denso, assai duttile, tutt’altro che meccanico, con a volte anche delle rotture e degli avanzamenti nel pensiero stesso del Leopardi a opera della poesia. Per esempio, l’Ultimo canto di Saffo indubbiamente viene a produrre come uno squarcio in quel sistema della natura benefica a cui il Leopardi nello stesso periodo nello Zibaldone era tuttora fedele, e in base al quale anche tenterà nel canto successivo, cioè nell’Inno ai Patriarchi, una specie di palinodia del suo sistema rispetto all’Ultimo canto di Saffo.

Dunque non si tratta, in questo rapporto fra pensiero e poesia, di un qualcosa di meccanico in cui la poesia sia sempre un dopo rispetto al pensiero, una semplice traduzione delle posizioni consolidate del pensiero, ma piuttosto di un vivo ardente ricambio, in cui spesso l’intuizione poetica appoggiata già dalle meditazioni filosofiche apre come degli spiragli ardenti, compie anche delle vere e proprie rotture estremamente feconde e che piú tardi Leopardi riprenderà anche a livello di pensiero per un consolidamento e un lavoro di approfondimento successivo.

Per quello che riguarda un brevissimo sguardo alla situazione biografica del Leopardi in questo periodo, dopo il fallito tentativo di fuga dalla casa paterna nel ’19, si prospetta un sentimento di solitudine forzata, che lo accascia, lo esaspera, lo porta da una parte a forme di disperazione e a quadri desolati della sua situazione attuale e persino di tutta la sua storia vitale che è giunta a questo esito miserevole; dall’altra parte però lo stimola (e ciò è molto importante poi per capire certi aspetti dei Canti, di cui parleremo) anche a forme di resistenza, di non accettazione, di volontà di uscire da questa situazione. Cioè, la situazione entro cui il Leopardi si sente bloccato, limitato, non è amata: il Leopardi non ha amato quello che egli sentiva come il carcere recanatese e il carcere della sua casa paterna, l’ha sofferto, l’ha sentito, giustamente, come un limite alla sua ansia di vita, sempre presente (anche nelle forme piú disperate di queste lettere), e, insieme, l’ha sentito con una continua volontà di uscirne e con una chiara, oltretutto, identificazione degli stessi personaggi a cui la sua situazione è legata.

L’uomo a cui egli deve questa prigione, questa incomprensione è, al solito, quel personaggio cosí maniaco e in qualche modo, nella prospettiva del Leopardi, addirittura pauroso, cioè l’ostinato e gretto Monaldo.

Le lettere, oltre a chiarirci gli elementi fondamentali della situazione leopardiana di questo periodo, esprimono anche molto bene quel fondo di salda persuasione di se stesso, quel senso di sicurezza di certe proprie prospettive d’idee, come si può dedurre da una lettera del 21 aprile 1820 a Pietro Brighenti, uno dei corrispondenti di questo periodo, in cui Leopardi, parlando appunto del padre e dei dubbi del padre circa le canzoni da pubblicare o meno, scrive:

[…] rispondo che io come sarò sempre quello che mi piacerà, cosí voglio parere a tutti quello che sono; e di non esser costretto a fare altrimenti, sono sicuro per lo stesso motivo a un di presso, per cui Catone era sicuro in Utica della sua libertà. Ma io ho la fortuna di parere un coglione a tutti quelli che mi trattano giornalmente, e credono ch’io del mondo e degli uomini non conosca altro che il colore, e non sappia quello che fo, ma mi lasci condurre dalle persone ch’essi dicono, senza capire dove mi menano. Perciò stimano di dovermi illuminare e sorvegliare. E quanto alla illuminazione, li ringrazio cordialmente; quanto alla sorveglianza, li posso accertare che cavano acqua col trivello.[1]

Evidentemente le persone che lo vogliono illuminare e sorvegliare coincidono con il padre, di fronte al cui dubbio paternalismo il Leopardi riafferma con energia le proprie prospettive e le proprie intime persuasioni. D’altra parte nella stessa lettera è notevole questo riepilogo scuro e squallido della sua situazione presente:

Dai 10 ai 21 anno io mi sono ristretto meco stesso a meditare e scrivere e studiare i libri e le cose. Non solamente non ho mai chiesto un’ora di sollievo, ma gli stessi studi miei non ho domandato né ottenuto mai che avessero altro aiuto che la mia pazienza e il mio proprio travaglio. Il frutto delle mie fatiche è l’esser disprezzato in maniera straordinaria alla mia condizione, massimamente in un piccolo paese. Dopo che tutti mi hanno abbandonato, anche la salute ha preso piacere di seguirli. In 21 anno, avendo cominciato a pensare e soffrire da fanciullo, ho compito il corso delle disgrazie di una lunga vita, e sono moralmente vecchio, anzi decrepito, perché fino il sentimento e l’entusiasmo ch’era il compagno e l’alimento della mia vita, è dileguato per me in un modo che mi raccapriccia. È tempo di morire. È tempo di cedere alla fortuna; la piú orrenda cosa che possa fare il giovane, ordinariamente pieno di belle speranze, ma il solo piacere che rimanga a chi dopo lunghi sforzi, finalmente s’accorga d’esser nato colla sacra e indelebile maledizione del destino.[2]

Tuttavia quell’entusiasmo, quel sentimento che egli accusa come scomparso a causa della sua situazione disperata, riecheggia fortemente in queste lettere rivelandosi meta e aspirazione continua del Leopardi anche in questo periodo. Citazioni da altre lettere porterebbero a insistere su questa disperazione leopardiana e insieme sulla resistenza e volontà di sfuggire alla solitudine, perseguita tra l’altro accanitamente attraverso il disegno di trovare comunque una occupazione, un impiego fuori di Recanati (a Bologna, nell’idea di ottenere una cattedra universitaria; a Roma, accettando persino l’idea di un impiego presso la Biblioteca Vaticana), come si può vedere per esempio in una lettera del 22 giugno 1821, sempre al Brighenti, in cui, in una specie anche di consolazione rivolta all’amico a cui è legato da certi toni di infelicità e di pessimismo, egli scrive:

Colui che disse che la vita dell’uomo è una guerra, disse almeno tanto gran verità nel senso profano quanto nel sacro. Tutti noi combattiamo l’uno contro l’altro, e combatteremo fino all’ultimo fiato, senza tregua, senza patto, senza quartiere. Ciascuno è nemico di ciascuno, e dalla sua parte non ha altri che se stesso. Eccetto quei pochissimi che sortiscono le facoltà del cuore, i quali possono aver dalla loro parte alcuni di questo numero: e voi sotto questo rispetto siete superiore a infiniti altri. Del resto o vinto o vincitore, non bisogna stancarsi mai di combattere, e lottare, e insultare e calpestare chiunque vi ceda anche per un momento. Il mondo è fatto cosí, e non come ce lo dipingevano a noi poveri fanciulli. Io sto qui, deriso, sputacchiato, preso a calci da tutti, menando l’intera vita in una stanza, in maniera che, se vi penso, mi fa raccapricciare. E tuttavia m’avvezzo a ridere, e ci riesco. E nessuno trionferà di me, finché non potrà spargermi per la campagna, e divertirsi a far volare la mia cenere in aria. Io vi prego con tutto il cuore a farvi coraggio, non perché non senta le vostre calamità, ché le sento piú delle mie: bensí perché credo che questa vita, e questo uffizio di combattere accanitamente e perpetuamente, sia stato destinato all’uomo e ad ogni animale dalla natura.[3]

Dunque Leopardi, anche in questa forma estrema che qualche volta assume toni acri, denuncia la sua volontà di accanita resistenza alla situazione, di disperato combattimento, secondo una morale eroica, che è un lato cosí profondo della sua personalità. D’altra parte, egli è pur carico insieme di un’energia vitale; ricerca sempre colloqui, contatti, attenzioni con i rari amici per vincere una solitudine non amata. Le lettere di questo periodo, soprattutto al Giordani, riboccano del suo ardore di effettivo colloquio; come quando, in una lettera del 18 giugno 1821, dirà al Giordani che riconosce in lui quell’uomo stupendo e incredibile, piú sollecito del bene e del male altrui che non del proprio, avvertendo il miracolo di trovare nel mondo uomini capaci di altruismo e di confidenza totale a cui egli disperatamente tende[4].

Quindi, nella situazione biografica del Leopardi di questi anni, va messa in rilievo da una parte, la coscienza sicura della propria situazione e dall’altra la volontà di superarla, di trovare soluzioni di carattere pratico e insieme la volontà di cercare forme di colloquio e di contatto con altri uomini; da cui si trae, al solito, l’impressione di un Leopardi tutt’altro che inerte, tutt’altro che amante della solitudine, ricco di forze effettive, di una volontà che tuttavia non resta sul solo piano esistenziale ma trova poi il suo corrispettivo nell’impegno di costruzione di opere in una serie assai lunga e complessa di disegni letterari.

Basta ripercorrere alcuni di questi disegni del ’20 e ’21[5] almeno enunciandone il soggetto e il tono fondamentale, per poter constatare non solo la volontà di reazione alla forzata solitudine, ma addirittura il continuo desiderio di intervento, di missione culturale dello scrittore; per esempio, è chiarissima la volontà del giovane Leopardi di riprendere la prospettiva d’intervento pubblico a sfondo patriottico, pubblico e nazionale nell’Elogio o Vita del General Polacco Cosciusco, il celebre eroe della libertà polacca, istituendo un parallelo con le sventure dell’Italia:

[...] per rispetto alla somiglianza che hanno le sventure della Polonia, a cui questo Generale volle fare riparo, con quelle dell’Italia. Si potrebbe dire che mi duole che un tal uomo non sia mio compatriota, e questo rivolgendosi a lui, che volendo celebrare un uomo illustre per vero ed efficace amor patrio, non l’ho trovato in questi tempi in Italia e m’è convenuto ricorrere agli stranieri; felicitar lui, felicitar la Polonia dei travagli che hanno sostenuti per difendere la loro indipendenza, poiché hanno fatto quanto è stato in loro, e se ciò senza effetto, non ci hanno colpa; augurare all’Italia che si possa dire una volta lo stesso di lei, rinfacciarle, che ancora non si possa dire una minima parte di questo a riguardo suo; inserire in questo lavoro quei pensieri che ho scritti intorno al raffreddamento dell’amor patrio a proporzione che coll’incivilimento cresce l’egoismo.

Oppure si può richiamare (nella stessa prospettiva del motivo oscillante di una ripresa della nazione italiana che aveva avuto la sua prima espressione nella canzone All’Italia) il progetto di un «Romanzo istorico [...] contenente la storia di qualche nazione prima grande poi depressa, poi ritornata in grande stato per mezzi che si dovrebbero fingere simili a quelli per li quali si può sperare o desiderare che l’Italia ricuperi il suo buon essere. [...] Il Romanzo dovrebb’essere pieno di eloquenza, rivolta tutta a muovere gl’Italiani, onde il libro fosse veramente nazionale e del tempo». Dove è da sottolineare al solito la finalità educativa di una letteratura concepita come missione e intervento, fortemente legata alla contemporaneità.

Oppure in una prospettiva leggermente svariante, il disegno di «Dialoghi Satirici alla maniera di Luciano, ma tolti i personaggi e il ridicolo dai costumi presenti o moderni» che è la primissima idea delle Operette morali, con una destinazione del riso in funzione di sollecitazione, d’intervento contro i costumi presenti o moderni che nello schema leopardiano sono decaduti o corrotti.

O ancora un trattato che il Leopardi disegnava di scrivere (di cui alcuni elementi si ritrovano nello Zibaldone, nello stesso periodo): «Della condizione presente delle lettere italiane. Dovrebb’essere un’opera magistrale nazionale e riformatrice, dove si paragonasse la letteratura italiana presente con quella delle altre nazioni, si mostrasse la necessità di libri filosofici elementari metafisici ec., istruttivi, di educazione». Anche qui si riscontra l’idea di un libro sulla letteratura italiana che avesse un carattere riformatore e insieme in qualche modo pedagogico, addirittura destinato a un pubblico vasto, non specializzato, persino di donne e ragazzi. In questo progetto è anche importante un accenno, da recuperare parlando delle canzoni del ’21-22, al classicismo leopardiano opposto al neoclassicismo piú illustrativo e archeologico, fondato su «soggetti importanti, nazionali, e del tempo», là dove scrive:

[...] si notasse [in questo libro] l’andamento che ora ha preso la letteratura, verso il classico e l’antico, si stabilissero i limiti necessari a questo andamento lodandolo però in generale, e mostrandolo necessario, ma inutile e dannoso senza l’unione della filosofia colla letteratura, senza l’applicazione della maniera buona di scrivere ai soggetti importanti, nazionali, e del tempo, senza l’armonia delle belle cose e delle belle parole [...].

Si può ancora ricordare il disegno di un Poema di forma didascalica sulle selve e le foreste, del quale non è tanto da sottolineare l’iniziale indicazione sulla forma didascalica (che potrebbe riportare a un tipo di poema didascalico molto frequente nel gusto neoclassico ancora del tempo del Leopardi), quanto il centro del disegno costituito da un elenco anche di miti delle foreste, delle belle illusioni antiche, che evidentemente riconducono a certi elementi della problematica leopardiana dello Zibaldone e degli stessi Canti, quando si pensi soprattutto ad Alla Primavera, o delle favole antiche. Oppure, ritornando sul piano piú immediatamente programmatico nazionale, può essere richiamato il progetto (anche in questo caso col fine di stimolo, di insistita attualità e programmaticità) di scrivere delle «Vite de’ piú eccellenti Capitani e cittadini italiani a somiglianza di Cornelio Nepote e di Plutarco, destinate a ispirare l’amor patrio per mezzo dell’esempio de’ maggiori, aiutato dall’eloquenza dello storico, da una frequente applicazione ai tempi presenti [...]. Ma questi dovrebbero essere principalmente scelti fra quelli che sono atti a produrre il fine che ho detto, non trattandosi tanto di far un’opera di storia da servire a tutti i secoli e nazioni ec. quanto a questo tempo e agl’Italiani», o ancora l’Argomento di un libro politico riconducibile alla meditazione politica dello Zibaldone tra il ’20 e il ’21, specialmente per gli accenni all’amore della virtú presso gli antichi e alla necessità di rendere individuale l’interesse per lo stato.

Infine, in questi disegni letterari compare persino una canzone A Virginia Romana e una A Bruto che sono la primissima idea di una parte della canzone Nelle nozze della sorella Paolina o addirittura di tutta l’intera canzone Bruto minore, che Leopardi scriverà appunto alla fine del 1821.

Dunque, questi disegni hanno un doppio valore: da una parte un valore piú generale di dimostrazione, di assicurazione di una intensa volitività costruttiva tutt’altro che esaurita, sicché addirittura in una lettera al Giordani del gennaio ’21 egli dirà che per colorire, per portare avanti tutti i disegni che sta tracciando o che gli passano per il capo non gli basterebbero quattro vite[6]; mentre, dall’altra, valgono ad accertare e a chiarire ulteriormente le prospettive che condurranno piú da vicino all’impianto delle canzoni del ciclo del ’21-22, soprattutto delle prime due, Nelle nozze della sorella Paolina e A un vincitore nel pallone.

Ma tali istanze educative pragmatiche d’intervento pubblico e civile, con cui Leopardi dava risposta alla sua situazione vitale bloccata, trovano ancor prima che in quelle canzoni uno sgorgo complesso e denso negli appunti dello Zibaldone.

Lo Zibaldone, inizialmente (tra la fine del ’17 e il principio del ’18) configurato in appunti poetici e successivamente come serie di osservazioni e di meditazioni di carattere piú schiettamente letterario confluite nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, a poco a poco, soprattutto nel ’19, accoglie sollecitazioni di carattere piú generale, piú filosofico, fra le quali in particolare spunta il contrasto (nel Discorso di un italiano ancora visto soprattutto in prospettiva letteraria) fra natura e ragione. Massimo slancio e una piú intensa e piú complessa e impegnata alacrità in direzione soprattutto filosofico-morale, lo Zibaldone prende proprio con gli appunti tra il ’20 e il ’21 che costituiscono la metà dell’intero “libro segreto” leopardiano.

Il carattere dell’atteggiamento filosofico leopardiano va visto nella prospettiva, giustamente indicata dal Luporini nel saggio Leopardi progressivo[7], di un filosofo moralista, ma non perciò privo di un rigoroso abito mentale e critico, schiettamente analitico e speculativo, tuttavia teso, malgrado la stessa volontà di affermare un suo sistema, piú che a una costruzione sistematica vera e propria, a una funzione appunto di moralista, a costruire una specie di piattaforma di appoggio soprattutto a un modo di vivere, a una concezione e a un comportamento vitali proposti al suo tempo e contro il suo tempo per rompere una situazione d’inerzia e d’inazione, di crollo di tutti i valori, di predominio dell’egoismo, del calcolo, dell’interesse grettamente personale, cioè di quella forma sterile e astratta di ragione incapace di alimentare la vita.

Nella protesta leopardiana contro la ragione e nella contrapposizione estrema, e portata a volte a punte quasi paradossali, tra natura e illusioni da una parte e ragione dall’altra, bisogna saper cogliere attentamente la distinzione del Leopardi fra una ragione naturale, una ragione intrinseca alla natura stessa dell’uomo, feconda, positiva, e l’eccesso della ragione, storicamente configurata come gretto razionalismo, una ragione separata, quasi sganciata, in una forma di morbosa proliferazione tumorale, dal resto delle forze dell’uomo che assorbe e distrugge tutte le cellule vitali dell’intero corpo e dell’intera personalità umana[8].

Questa è la ragione contro cui Leopardi a lungo si batte, specialmente in questa fase dello Zibaldone fino al 1822-23; ma egli non intendeva affatto abbattere ogni forma di filosofia, come si può verificare già da un pensiero estremamente importante del 7 giugno 1820 dove, partendo da una riflessione sulla civiltà delle nazioni, egli dice:

[...] un popolo di filosofi sarebbe il piú piccolo e codardo del mondo. Perciò la nostra rigenerazione dipende da una, per cosí dire, ultrafilosofia, che conoscendo l’intiero e l’intimo delle cose, ci ravvicini alla natura. E questo dovrebb’essere il frutto dei lumi straordinari di questo secolo. [115][9]

Questa «ultrafilosofia» è appunto una filosofia che, svalutata la ragione puramente gretta e calcolatrice, la ragione separata dalle altre forze dell’animo umano, tende a riavvicinarci alla natura, cioè alla integralità umana: questa è sostanzialmente anche la prospettiva in cui si deve avvertire la posizione leopardiana nel contrasto natura-ragione. A scanso di equivoci pericolosi, in cui a volte la critica è pure caduta, è bene avvertire che lo stesso ardente appello alla natura, che Leopardi pronuncia nello Zibaldone, è da intendere non in senso in qualche modo reazionario e vicino a certe forme di romanticismo del tempo, cioè come un rituffarsi nella barbarie, un irrazionalismo mistico o selvaggio; esso, al contrario, ha una prospettiva civile, tende sempre alla ricostituzione di una integrità di forze da recuperare, di una figura dell’uomo piú intera di quella dimidiata, pericolosamente ridotta, schematizzata dalla gretta ragione: è cioè una lotta per un tipo di civiltà, tanto è vero che nello Zibaldone sarebbe facile recuperare molti pensieri che continuamente e sottilmente insistono sulla distinzione fra naturale e barbarico.

Leopardi non amò il barbarico, non amò neppure, tra l’altro, certe forme di esaltazione a cui il romanticismo piú portava, del medioevo di tipo feudale, imperiale, mistico-religioso e reazionario a cui egli reagiva e reagí sempre accanitamente, alla luce, anche, delle sue risorse di carattere illuministico; per Leopardi il medioevo è sentito proprio come un’era di oscurantismo e di barbarie.

A questo schema fondamentale di natura e illusioni da una parte, ragione calcolatrice, gretta, sterilizzante dall’altra, si raccordano (in una sia pur minima esposizione di certi principi fondamentali su cui si muove il filone centrale dello Zibaldone in questo periodo), altri motivi importanti; il motivo anzitutto della felicità: l’uomo per il Leopardi ha una tendenza fondamentale, la felicità e la felicità in terra. Anche su questo punto, che trova conferma poi in altri accenni leopardiani, occorre dire chiaramente che Leopardi non ha sentito mai una vera attrazione per forme religioso-mistiche, ma ha avuto sostanzialmente al centro dei suoi interessi, dei suoi sdegni e delle sue proteste una prospettiva fortemente umana e terrena, riguardante l’uomo e la storia dell’uomo.

Questa tendenza alla felicità è motivo evidentemente ripreso dalla meditazione settecentesca specialmente di tipo sensistico, e ha come forza fondamentale l’«amor proprio», l’amor di sé, quell’interesse fondamentale senza cui non esiste vita, che si articola nel pensiero leopardiano in un successivo contrasto, in «eroismo» da una parte, dall’altra in «egoismo». Leopardi dentro lo Zibaldone conduce una continua lotta per separare su questa radice comune dell’amor proprio l’accezione alta, naturale, e cioè l’eroismo, dall’accezione mortificante, e cioè la ragione corrotta, l’egoismo. L’eroismo è la forma in cui l’amor proprio si traduce nell’uomo intero, generoso, poetico ed entusiastico, vicino alla natura; è quindi la caratteristica di un’epoca perduta da rinnovare (soprattutto l’epoca della classicità greca e romana). L’egoismo invece è il vizio, è la sigla piú abbietta dell’uomo contemporaneo, dell’uomo che, con la sua gretta e calcolatrice ragione, riduce la sorgente cosí energica e generosa dell’amor proprio al tornaconto individuale, al calcolo gretto, al conformismo vile e interessato.

Qui sorge un corollario del pensiero leopardiano in questo periodo che va messo fortemente in luce, pensando alla prospettiva delle canzoni del ’21-22: l’amor proprio, inteso nella sua accezione alta, come eroismo, naturalmente comporta il sacrificio di sé, se occorre, a vantaggio del bene pubblico; al tema della felicità a cui l’individuo di per sé naturalmente aspira, si associa sempre, con una chiara eredità di carattere illuministico, l’idea di una pubblica felicità e utilità. Sicché Leopardi, malgrado certe impennate, che potrebbero far pensare a forme piú chiaramente e chiusamente individualistiche, pensa qui sempre invece a un individuo, che sulla fortissima radice personale dell’amor proprio, è però continuamente rivolto a una società, a una civiltà, agli altri.

Da questo punto di vista possono soccorrere vari pensieri dello Zibaldone e, per esempio, uno del 21 gennaio 1821, quando, dopo una riflessione precedente sulla ragione che è venuta prevalendo nel mondo moderno e contemporaneo, Leopardi conclude:

Eccoci tutti filosofi [...]. Eccoci tutti egoisti [filosofi egoisti nel senso già chiarito per cui l’eccesso di ragione sterilizzante porta al tornaconto individuale e quindi all’egoismo]. Ebbene? siamo noi felici? che cosa godiamo noi? Tolto il bello, il grande, il nobile, la virtú dal mondo, che piacere, che vantaggio, che vita rimane? Non dico in genere, e nella società, ma in particolare, e in ciascuno. Chi è o fu piú felice? Gli antichi coi loro sacrifizi, le loro cure, le loro inquietudini, negozi, attività, imprese, pericoli: o noi colla nostra sicurezza, tranquillità, non curanza, ordine, pace, inazione, amore del nostro bene, e non curanza di quello degli altri o del pubblico ec.? Gli antichi col loro eroismo, o noi col nostro egoismo? [538][10]

In questa ardente esplosione di ciò che Leopardi veramente amava, della visione di vita che egli in sé profondamente portava, è soprattutto notevole l’insistenza sugli uomini moderni che son diventati solamente amanti «del nostro bene», cioè del proprio personalissimo bene e «non [curanti] di quello degli altri o del pubblico», proprio per indicare che lo stesso individualismo, la stessa attenzione alla felicità del singolo sono temi in lui continuamente connessi a una missione del singolo per gli altri, per la società, in un raccordo assai chiaro con le prospettive di Nelle nozze della sorella Paolina o di A un vincitore nel pallone.

E sempre pensando a questi canti successivi, acquista rilievo quella continua forma di contrasto che nello Zibaldone si muove tra gli antichi e i moderni, tra gli antichi e i contemporanei, tra l’epoca della natura, delle illusioni e l’epoca della ragione. In quest’ambito si articola, dentro lo Zibaldone, anche un particolare filone (dianzi indicato parlando del progetto leopardiano di scrivere un libro politico) di meditazione piú direttamente politica svolta in una folta serie di pensieri del 1820 e ’21. In una lunga meditazione politica del 22-29 gennaio 1821, dopo aver detto inizialmente che la politica, come la morale, è la parte piú importante della filosofia (al moralista Leopardi la filosofia morale interessa assai piú che la filosofia teoretica), conclude che la politica è la parte piú viva e in qualche modo piú stimolante della stessa filosofia morale, perché non tende solamente alla soddisfazione del singolo o all’affermazione morale del singolo, ma alla morale collettiva, alla morale di un popolo e di una società[11].

Queste meditazioni politiche non sono soltanto teoriche, se si addensano nel 1820-21, cioè in anni in cui sulla scena politica si muovevano i primi moti di carattere liberale costituzionale, i pronunciamenti e la rivoluzione di Spagna, i movimenti e le rivoluzioni del ’20-21 in Piemonte e a Napoli. Sarebbe forzatura indebita ritenere che Leopardi prenda una precisa e decisa posizione nei confronti di questi avvenimenti storici, ma certo, in questo periodo, la sua meditazione ne è sollecitata a un impegno piú politico, e queste pagine non mancano di una certa loro risposta al tipo e al fondo di questi avvenimenti. Soprattutto nel brano ricordato del gennaio del ’21, Leopardi insiste da una parte sulla, diremo cosí, naturalità e sul carattere propizio alle generose illusioni dei regimi popolari repubblicani, dei regimi a fondo democratico che egli identifica, con qualche genericità, con i regimi repubblicani della Grecia o del periodo repubblicano di Roma; dall’altra, denuncia la natura di compromesso su cui si fondano le monarchie costituzionali che sono qualcosa di ibrido e di artificioso: non monarchie assolute con la loro rigida coerenza, né liberi regimi di carattere repubblicano e popolare. In questo modo egli assicura certe basi che rimarranno costanti (anche se a volte latenti) nella sua prospettiva politica; una prospettiva politica basata sostanzialmente sui caratteri di libertà ed eguaglianza, i piú schietti, piú naturali di un regime politico e insieme i piú propizi a quell’esercizio delle illusioni, che per Leopardi era essenziale alla vita e alla rigenerazione del tempo moderno, in nome del quale giunge appunto (ed è forse il punto piú interessante storicamente di questa discussione sulla politica) a porre in dubbio l’efficacia, la capacità di durata e la consequenzialità della soluzione delle monarchie costituzionali o costitutive[12].

Questa tendenza verso forme repubblicano-popolari, verso forme di libertà e di eguaglianza, chiarisce anche i dissensi leopardiani contro gli stessi aspetti del movimento risorgimentale, che gli appaiono viziati dalla ricerca di forme di compromesso, come la monarchia costituzionale e che in seguito, dopo i moti del ’31, egli giudicherà con estrema asprezza, soprattutto nei Paralipomeni della Batracomiomachia, perché viziati da un compromesso moderato, di carattere non solo politico, ma ideologico di tipo religioso e spiritualistico. Ma in questa prima fase dello Zibaldone è importante osservare che, dallo schema natura-illusioni e dal contrasto antichi e moderni, Leopardi è ricondotto a una meditazione di carattere politico e storico, sempre legata al senso del bene pubblico, in una dimensione che va ben al di là dell’idillismo e dell’individualismo.

Su quello stesso schema fondamentale della natura e delle illusioni, il Leopardi si apre in questo periodo anche a un’altra meditazione importante e assai insistita, che giova pur ricordare in questa esposizione per filoni e prospettive fondamentali dello Zibaldone. Ci riferiamo alle riflessioni svolte sulla religione e il cristianesimo, riflessioni che tuttavia finiscono per divenire secondarie sotto l’urgenza dei motivi piú leopardiani che irrompono nella prospettiva di poesia del ’21-22, e soprattutto finiscono per mettere in luce, prima di una vera rottura che si attuerà in anni piú tardi, soltanto reazioni e dissensi.

Il sistema leopardiano della natura e delle illusioni vuole reggersi sui soli suoi principi; tuttavia, in questo momento, la religione e il cristianesimo (che potranno dare una specie di surrogato delle illusioni autentiche) sono indicati come via minore e secondaria che altri, ma non Leopardi, potrà percorrere. Per Leopardi la religione cristiana dopo la decadenza dell’epoca greca e romana delle grandi illusioni eroiche è stata un rimedio tanto meno efficace della natura e della civiltà antica, ma pur tuttavia qualcosa di migliore dell’arida e secca verità. La religione, cioè, è vista nella sua capacità di sostenere, per quanto debolmente, delle illusioni, di alimentare negli uomini forme di entusiasmo e di fede.

La religione in questo momento è dunque per Leopardi una via secondaria e in certo modo parallela al suo sistema, col quale ha comunanze e possibilità di integrazione (come dirà in un pensiero del 1820: «L’uomo non vive d’altro che di religione o d’illusioni» [216])[13], ma dal quale va tenuta distinta.

Risalgono a questo periodo, circa il 1820 (la data è facile a stabilirsi per il terminus a quo, la fine del 1819, ma non è facile purtroppo per il terminus ad quem), alcuni progetti e schemi di Inni cristiani, che intendevano esprimere un momento dello sviluppo leopardiano non nodale e centrale, ma laterale e secondario, sul piano poetico; temi dell’Antico e del Nuovo Testamento (Dio Redentore. Angeli. Maria. Patriarchi. Mosè. Profeti. Apostoli. Martiri. Solitari), fortemente connessi alle riflessioni dello Zibaldone intorno al materiale poetico che gli uomini moderni hanno di fronte a sé, costituito anzitutto dalle illusioni e dai grandi miti dell’antichità, ma reperibile anche nei miti religiosi[14].

Per questi tentativi di utilizzazione estetica dei miti cristiani, poi del tutto abbandonati e assenti dalla sua vera e propria poesia, il Leopardi risente indubbiamente del Génie du Christianisme dello Chateaubriand, già presente fin dal 1815 all’altezza del Saggio sopra gli errori popolari degli antichi; e ciò conforta a vedere questi schemi soprattutto in direzione di una considerazione estetica della religione, sentita come bella e poetica ma non vera o capace di dare la salvezza. Dirà infatti il poeta, a un certo punto, «Bellezza della religione» (ma qui è anche da sottolineare la distinzione leopardiana sulla «religione nostra» intesa non tanto come religione sua, ma come religione del tempo e del popolo), che «ha moltiss. di quello che somigliando all’illusione è ottimo alla poesia», cioè è sempre qualcosa di analogo, ma non di perfettamente coincidente con i suoi motivi piú propri e piú profondi.

D’altra parte chi scorra questi progetti di Inni cristiani troverà che il Leopardi è continuamente portato dentro questi argomenti a insistere su temi piú personali. Per esempio, immaginando lo schema di un Inno ai martiri e particolarmente «A S. Cecilia cultrice e protettrice delle belle arti, della musica, della poesia», egli dice: «Fratellanza di queste coll’eroismo che la spinse al martirio»; cioè l’accento piú interessante è posto sulla fratellanza tra la poesia, che nasce dalle illusioni e che alimenta illusioni, e l’eroismo che spinse S. Cecilia al martirio. Sono questi i punti piú sottili, piú interessanti di simili schemi, quelli piú pertinenti ai veri interessi leopardiani. Cosí, portato da motivi piú urgenti e interni di carattere nazionale-patriottico, progetta «Invocazioni a Maria per la povera Italia», e un Inno al Redentore il cui finale dice: «già fosti veduto piangere sopra Gerusalemme. Era in piedi questa tua patria (giacché tu pure volesti avere una patria in terra) e doveva esser distrutta desolata ec. ec. Cosí tutti siam fatti per infelicitarci e distruggerci scambievolmente, e l’impero romano fu distrutto, e Roma pure saccheggiata ec. ed ora la nostra misera patria ec. ec. ec.». L’interesse cioè è portato sempre da una zona di carattere religioso a una prospettiva di carattere diverso che può essere il tema dell’eroismo del martirio, della poesia, o il tema patriottico nazionale, che tanto premeva in questi anni al Leopardi.

Per quello che riguarda una interpretazione di carattere religioso, io ho i miei dubbi e sostanzialmente non consento con la tesi di Giovanni Getto che, in un saggio sugli Inni cristiani, sostiene, pur con una certa cautela marginale, la qualità religiosa e la schiettezza di alcune parti di questi Inni che costituirebbero per il Leopardi un momento (seppure un momento) di ardente intensità schiettamente religiosa, inserita in un lungo arco che andrebbe dalla religione inizialmente e supinamente accettata nell’adolescenza, a una religiosità negativa (ma sempre religiosità) degli anni piú tardi[15]. Questa prospettiva è, a mio parere, assolutamente insostenibile. Leopardi giungerà a una negazione della religione, non a una religiosità negativa. Egli prenderà una posizione, direttamente e consapevolmente documentata, per esempio, dalla celebre lettera al De Sinner del ’32, in cui affermerà con forza che non si può dare alla sua poesia nessun carattere religioso[16]. Leopardi giungerà a una posizione di netto, risoluto rifiuto di ogni forma religiosa, a una posizione atea, e ancor piú di protesta contro ogni sistema teologico, ogni forma di rivelazione, ogni forma di accettazione di un volere superiore, che in termini religiosi, se si vuole, si potrà chiamare blasfema, bestemmiatrice, ma non certo religiosa (e basta d’altronde pensare al finale di Amore e Morte e della Ginestra).

Del resto, anche per quello che riguarda questi Inni cristiani, e per esempio nell’Inno al Redentore e nel suo Supplemento, il Cristo è soprattutto il martire a testimonianza della situazione umana: la prospettiva leopardiana anche in questo Inno è profondamente terrena e il vero martire, la vittima innocente, sofferente è l’uomo, a cui va la tensione ardente del poeta. Parlando in questo Inno della volontà di Cristo di assumere su di sé il peso dell’umanità, non gli rivolge una preghiera o un’invocazione, non confida né si affida al suo potere superiore, né alla speranza di una vita futura, ma insiste soprattutto sul suo carattere profondamente umano e sull’umana infelicità («noi già fatti cosí dolenti pensiamo che la tua visita ti debba aver mosso a compassione»). Senza contare che anche in questi Inni il Leopardi farà una specie di paragone tra la situazione moderna e l’antica (la moderna tanto peggiore, l’antica tanto piú felice), che prova chiaramente che l’intervento del cristianesimo non è stato sentito dal Leopardi come la redenzione dell’umanità, ma solo, alla luce del suo Zibaldone, come un rimedio in qualche modo inferiore: «Era allora» (al tempo dell’antica religione pagana) «la nostra gente assai men trista, che ’l suo dolor non conosceva, e ’l suo crudel fato».

Egli distingue sempre accuratamente tra un’epoca antica piú vicina alla natura e alle illusioni, in cui gli uomini erano meno infelici, e l’epoca moderna, in cui, malgrado il cristianesimo, l’infelicità si è continuamente accresciuta: anche nel Supplemento agli Inni cristiani, che ritorna sull’Inno al Redentore, si sviluppa ulteriormente la carica sentimentale, l’intensità leopardiana, quelle sue attenzioni agli uomini infelici, ma non si giunge però mai a quel tono piú vero, religioso, di fede, di sicurezza di invocazioni, di preghiere, di compensi ultraterreni, che sono motivi sostanzialmente esclusi dalla prospettiva leopardiana:

Tu sapevi già tutto ab eterno, ma permetti all’immaginaz. umana che noi ti consideriamo come piú intimo testimonio delle nostre miserie. Tu hai provata questa vita nostra, tu ne hai assaporato il nulla, tu hai sentito il dolore e la infelicità dell’esser nostro [...].

L’accento leopardiano batte sempre su questo nulla, su questo dolore:

Pietà di tanti affanni [...] di questa povera creatura tua, pietà dell’uomo infelicissimo [...] pietà del gener tuo, poiché hai voluto aver comune la stirpe con noi, esser uomo ancor tu [...] Ora vo da speme a speme tutto giorno errando e mi scordo di te, benché sempre deluso ec. Tempo verrà ch’io non restandomi altra luce di speranza, altro stato a cui ricorrere, porrò tutta la mia speranza nella morte, e allora ricorrerò a te [...].

Singolare dichiarazione religiosa quest’ultima, che non afferma nessuna effettiva fede attuale, rimandando la possibilità di riporre la speranza in un potere superiore a un tempo futuro, a quando egli abbia perso ogni altra luce di speranza.

Nel momento attuale il sostegno è piuttosto sul suo sistema della natura e delle illusioni e su altre speranze, non su quella direttamente cristiana e religiosa; del resto, basterà accennare a un colloquio epistolare di cui ci manca purtroppo la parte piú personale del Leopardi.

Di uno scambio di lettere che si svolge nel ’20-21 tra il Leopardi e una sua zia, Ferdinanda Melchiorri (una donna, come traspare dalle sue lettere, estremamente sensibile, fine, capace di sentire l’eccezionalità del nipote e ferma in alcune posizioni religiose, sincere e chiaramente cristiane), ci resta una lettera che la zia scrisse da Roma il 17 gennaio 1821 al nipote Giacomo. Da tale lettera si può capire come egli, anche in questo colloquio con uno spirito chiaramente religioso come la Melchiorri, prospettasse delle posizioni non inseribili in una prospettiva religiosa. Scrive appunto la Melchiorri in questa lettera:

Per quanto siano grandi le nostre afflizioni, noi non dobbiamo ricusare di sostenerle, allorché il liberarcene non ci sia possibile. Dobbiamo porre bensí in opera i mezzi opportuni a renderle meno gravi, ma non mai abbandonarci alla disperazione, risorsa non degli uomini, ma delle bestie. L’uomo virtuoso e cristiano si ricorda di esser soggetto al suo Dio, e però bacia la mano che lo percuote; si ricorda che ha nel suo Dio un Padre che veglia sopra di lui, che lo ama, che non lo abbandonerà; quindi apre a lui il suo cuore, gli chiede con ispirito di sommissione ciò che gli è necessario, e poi attende dal medesimo la diminuzione de’ suoi mali.[17]

La posizione della zia è di totale fiducia in un potere superiore, alla cui volontà interamente ella si rimette (sino all’espressione di una sottomissione singolarmente efficace: il cristiano «bacia la mano che lo percuote»).

Questa era una lezione inserita in un sistema, in una fede religiosa, cui evidentemente Leopardi non consentiva, se anche le lettere successive della zia insistono continuamente sul bisogno del cristiano di confidare in Dio, di rimettersi con sottomissione a lui.

Se si pensa al Leopardi piú tardo, del grande finale poetico di Amore e Morte, si troverà tra l’altro una singolare ripresa a contrasto di questa frase umile della zia:

La man che flagellando si colora

nel mio sangue innocente

non ricolmar di lode,

non benedir, com’usa

per antica viltà l’umana gente;

ogni vana speranza onde consola

se coi fanciulli il mondo,

ogni conforto stolto

gittare da me [...]. (vv. 112-120)[18]

L’immagine, che nella prosa modesta della zia non era che l’espressione di un’intensa e sicura pietà religiosa, viene trasferita, nel calore poetico diversissimo del Leopardi, in una forma di assoluto contrasto che appare quasi una risposta, non certo all’amatissima zia, ma alla posizione che ella rappresenta, il ricolmare di lode, il benedire la mano che flagellando si colora del sangue innocente, per Leopardi, che rifiuta ogni speranza dell’aldilà, ogni conforto religioso, ha addirittura del vile e dello stolto.

Questo per indicare non solo come nello stesso periodo in cui Leopardi svolge nello Zibaldone la difesa della religione come minore madre delle illusioni, egli in effetti fosse lontano da una vera e forte adesione a motivi religiosi, ma anche come quella che il Getto chiama religiosità negativa, in qualche modo foriera di posizioni positive, è in realtà una posizione estremamente energica, lucida, di netto distacco e di netto rifiuto. Approdo ateo non scalfito da certe espressioni dell’ultimissimo periodo (di raccomandazione al padre o alla madre di pregare Dio, come nell’ultima dolorosissima lettera, perché una buona e pronta morte lo liberi dalle sofferenze ormai intollerabili)[19], dettate da un rapporto di affetti che, specialmente negli anni maturi, potevano aver acquistato un certo vigore nella maggiore tolleranza leopardiana verso persone con cui non aveva alcuna comunanza di principi, ma con cui sul piano affettivo non voleva radicalizzare i punti di contrasto. La riprova è data dall’atteggiamento inequivocabile di fronte all’attribuzione che da varie parti nel 1831 si era fatta al Leopardi dei Dialoghetti sulle materie correnti, frutto del piú schietto reazionarismo di Monaldo, e giudicati da Giacomo in una lettera al cugino Melchiorri del ’32 «sozzi, fanatici dialogacci», «infame, infamissimo, scelleratissimo libro»[20]. Si capisce che quelle espressioni diplomatiche al padre non potevano esser piú di una pietosa cortesia. Del resto, proprio per questi ultimi anni, basta pensare ai Paralipomeni della Batracomiomachia o alla Ginestra per eliminare qualsiasi dubbio sul vero fondo delle posizioni leopardiane intorno alla religione.

Dunque, i numerosi pensieri dello Zibaldone di questo periodo sulla religione e sul cristianesimo appaiono sostanzialmente piú interessanti per quello che Leopardi viene dicendo contro il cristianesimo, che è del tutto contrastante con la difesa che egli faceva della religione come rimedio alla civiltà moderna, corrotta.

Per capire d’altra parte il sistema leopardiano della natura e delle illusioni, i motivi che veramente lo interessavano, le prospettive di desiderio di vita intera, di integralità dell’uomo, il valore che ha la vitalità in Leopardi e tutti quegli altri motivi che possiamo poi ritrovare alla base dei canti del ’21-22, può esser sufficiente scorrere l’indice analitico dello Zibaldone, sotto la voce cristianesimo; si troveranno pensieri di questo genere: non è vero che il cristianesimo abbia diradate e rese piú umane le guerre; oppure il cristianesimo è stato «favorevole al dispotismo» (dove si nota una ripresa di certi motivi alfieriani); il cristianesimo, predicando l’obbedienza, in qualche modo inclina l’animo degli uomini da una obbedienza spirituale a una obbedienza temporale; e, ancora piú a fondo, il cristianesimo «ha contribuito non poco a distruggere il bello il grande il vivo il vario di questo mondo, riducendo gli uomini dall’operare al pensare e al pregare» [253][21].

Un pensiero di questo genere stacca Leopardi da ogni posizione di adesione effettiva al cristianesimo, che viene giudicato alla luce del suo sistema, in cui le illusioni e la natura favoriscono una destinazione attiva dell’uomo nato per agire, per intervenire, per operare, per esercitare tutte le sue forze intere, e non semplicemente per pregare. Oppure, nel momento in cui scrive che il cristianesimo «chiama beato chi piange, predica i patimenti, li rende utili e necessari» [405][22], egli lo trova del tutto innaturale, del tutto contrario al desiderio, alle tendenze dell’uomo.

Dice ancora: «la religion cristiana [è] contraria alla natura» proprio a proposito di una madre cristiana [353], con qualche probabile e terribile allusione alla stessa madre, Adelaide Antici Mattei, che tutta presa dal suo spirito religioso, dalle virtú cristiane e dalla paura del peccato, continuamente desiderava nel suo intimo, in qualche modo, le malattie, le disgrazie per i figli; quando un figlio moriva intimamente ne gioiva, quando una malattia era superata ne provava un intimo dispetto, perché essa vedeva, in quella morte precoce, una liberazione dalla contaminazione del peccato, una possibilità per i figli di giungere all’immediata e importante salvezza spirituale: tutto ciò è, per Leopardi, contrario alla natura, è contrario naturalmente all’umanità[23].

E ancora altri pensieri: l’assurdità del cristianesimo che definisce segno di maggior favore di Dio l’infelicità piuttosto che la prosperità. Leopardi riteneva, al contrario, la felicità come meta suprema della natura umana e gli sembrava quindi assurdo che si desiderasse l’infelicità come un favore e ancora che il cristianesimo fosse la sola religione che «faccia considerare e consideri come male quello che naturalmente è, fu, e sarà sempre bene [...] la bellezza, la giovanezza» [2456][24].

Questi pensieri sul cristianesimo sono soprattutto interessanti per riportarci al filone piú denso dello Zibaldone di questi anni, alla prospettiva del Leopardi, che nel suo sistema della natura e delle illusioni persegue insistentemente una vita piena e una felicità sulla terra.

Ancora in un pensiero del 13 settembre 1821, che ha molta vicinanza ormai alle canzoni Nelle nozze della sorella Paolina e A un vincitore nel pallone, scrive:

[...] il Cristianesimo surrogando un altro mondo al presente; ed ai nostri simili, ed a noi stessi un terzo ente, cioè Dio, viene nella sua perfezione, cioè nel suo vero spirito a distruggere il mondo, la vita stessa individuale [...] e soprattutto la società, di cui a prima vista egli sembra il maggior legame e garante. Che vantaggio può venire alla società, e come può ella sussistere, se l’individuo perfetto non deve far altro che fuggir le cose per non peccare? impiegar la vita in preservarsi dalla vita? Altrettanto varrebbe il non vivere.

E finisce:

Si vede da ciò, che il Cristianesimo non ha trovato altro mezzo di corregger la vita che distruggerla, facendola riguardar come un nulla anzi un male, e indirizzando la mira dell’uomo perfetto, fuori di essa, ad un tipo di perfezione indipendente da lei, a cose di natura affatto diversa da quella delle cose nostre e dell’uomo. [1685-1688][25]

È un pensiero decisivo per chiarire meglio la vera prospettiva leopardiana, soprattutto in questi anni.

Esso ci riconduce, piú da vicino, alla somma imponente di quei pensieri (dal Leopardi continuamente elaborati) che convergono sulla vitalità, sul fervore, sullo stesso vigore fisico.

Basterà accennare ad alcuni. In un pensiero in cui afferma come lo stesso vigore fisico sia elemento essenziale della vita umana, Leopardi dice, riferendosi anche al cristianesimo: «Nel corpo debole non alberga coraggio, non fervore, non altezza di sentimenti, non forza d’illusioni ec. [...] Nel corpo servo anche l’anima è serva» [255][26]. Egli persegue una visione, un desiderio della integralità umana anche negli aspetti del fisico, che verrà a sostenere certi aspetti importanti della sua poesia (si pensi ad A un vincitore nel pallone); e infiniti sono i pensieri sulla vitalità, e soprattutto sulla natura dell’uomo tesa a una vita piena, a una vita attiva, a un raccordo tra vita e poesia. In un pensiero già entro il ’22 egli dice:

Se l’uomo sia nato per pensare o per operare, e se sia vero che il miglior uso della vita, come dicono alcuni, sia l’attendere alla filosofia ed alle lettere (quasi che queste potessero avere altro oggetto e materia che le cose e la vita umana e il regolamento della medesima, e quasi che il mezzo fosse da preferirsi al fine), osservatelo anche da questo. Nessun uomo fu né sarà mai grande nella filosofia o nelle lettere, il quale non fosse nato per operare piú e piú gran cose degli altri, non avesse in se maggior vita e maggior bisogno di vita che non ne hanno gli uomini ordinarii, [...] non fosse piú disposto all’azione e all’energia dell’esistenza, che gli altri non sogliono essere. La Staël lo dice dell’Alfieri [...] anzi dice ch’egli non era nato per iscrivere, ma per fare, se la natura de’ tempi suoi (e nostri) glielo avesse permesso. E perciò appunto egli fu vero scrittore, a differenza di quasi tutti i letterati o studiosi italiani del suo e del nostro tempo. [2453][27]

La posizione leopardiana in questo periodo insiste su di un uomo ideale, intero, attivo: lo stesso scrittore verifica le sue capacità di grande scrittore solo se porta in sé una radice di somma energia e di disposizione a operare.

Quando Leopardi parla di maggior bisogno di vita non vuol dire necessariamente, in un possibile riferimento autobiografico, che questo grande scrittore deve esser un uomo estremamente attivo, ma piuttosto che deve avere in sé una disposizione, un bisogno maggiore di vita rispetto agli altri uomini, un senso piú grande e piú profondo dell’esistenza; solo cosí l’Alfieri «fu vero scrittore».

Occorre avvertire che il modo con cui dalla critica è stato utilizzato lo Zibaldone è un modo parziale che ha perduto di vista anche tutta una ricchezza di spunti, a volte anche piú sottilmente meditativo-filosofici, tutto lo svolgersi del suo pensiero di carattere sensistico verso forme d’incipiente materialismo, tutta la sua lotta contro le idee innate, contro ogni idea d’assoluto.

Un pensiero come quello riportato sull’Alfieri, sulla natura del vero poeta, del vero scrittore, apre alla considerazione delle meditazioni piú strettamente letterarie, di estetica e critica sulla poesia, sui poeti, sui singoli autori, sul problema della lingua, del linguaggio e dello stile poetico in rapporto anche alla nuova fase creativa che si apre alla fine del ’21. Tali riflessioni costituiscono un altro importante filone della complessa meditazione leopardiana in questi anni, tanto importante che qualche volta si è finito, specialmente in certe epoche, per vedere lo Zibaldone soprattutto da questo punto di vista, cioè come il documento di un eccezionale letterato, di un grande tecnico, di un uomo impegnato soprattutto sulla letteratura.

La zona in cui questo tipo di lettura dello Zibaldone ebbe un forte rilancio è quella dei prosatori d’arte della rivista «La Ronda», che ricercava spunti verso la nozione, allora contemporanea, della lirica pura; in effetti, un’equilibrata considerazione porta a tener conto di questa parte cosí pertinente a un Leopardi sperimentatore di linguaggio, mediatore di problemi estetici, non considerandola però come l’unica parte ma come continuamente e organicamente interferente con gli altri elementi del suo pensiero. Quindi lo Zibaldone non può essere guardato solo da questo punto di vista, cosí come d’altra parte sarebbe errato vederlo solo come il documento del pensiero filosofico di Leopardi.

Anche per certe supposte anticipazioni a nozioni di lirica pura, bisogna ricollocare le cose sempre in una corretta interpretazione storica, dato che anche alcune affermazioni secondo cui «La lirica si può chiamare la cima il colmo la sommità della poesia, la quale è la sommità del discorso umano» [245] vanno interpretate nel contesto di questi anni, non come anticipazione della lirica pura, in senso contemporaneo o moderno; e la stessa espressione secondo cui alla lirica «si richiede un sublime d’un genere [...] piú alto» [245][28] è legata alla classificazione dei generi letterari: in questo caso il «sublime», come veniva chiamato nel Settecento, che è d’altra parte la lirica eloquente. Proprio cioè quel genere lirico a cui egli puntava in questo stesso periodo, parlando della lirica del Petrarca, del quale apprezzava moltissimo le canzoni, come All’Italia e Spirto gentil, di carattere civile, e viceversa attribuiva all’elegia il corpo piú importante del «Canzoniere», quello che in senso moderno sarebbe la parte piú lirica del Petrarca.

Le cose vanno quindi correttamente interpretate, cosí come anche nel percorso della meditazione filosofica leopardiana ci si deve sempre preoccupare di non forzare i suoi tempi e la sua organica direzione, facendo, come si è fatto, di Leopardi l’anticipatore di certi movimenti filosofici piú moderni, una volta puntando sul pragmatismo, un’altra su forme d’idealismo o sull’esistenzialismo o sul relativismo.

Un’operazione di tal genere, sbagliata e antistorica, non va fatta neppure per i pensieri sulla poesia e sul linguaggio, che vanno collocati nella zona storica a cui il Leopardi appartiene.

Il filone di pensieri sugli scrittori, sulla letteratura, sulla poesia intesa come qualcosa di energico e di stimolante, è indubbiamente anch’esso la punta piú interessante e piú pertinente alla poetica leopardiana in questo periodo, alla direzione che Leopardi perseguiva anche concretamente, con tutta la ricchezza inventiva che l’operare poetico comporta.

Leopardi si è mosso (e qui non si può riassumere tutta la complessità del suo movimento in questo campo), entro certi limiti costituiti dalla estetica classicistica settecentesca, inizialmente sui due opposti versanti della poesia che ha un fine edonistico e della poesia che ha un fine di utilità, volta a volta accentuando l’uno o l’altro aspetto; ma, ciò che piú è interessante, facendo convergere diletto e utilità in una concezione della poesia (soprattutto all’altezza della prospettiva di poetica dei canti del ’21-22) che riempie e stimola l’animo e che cosí adempie a quella funzione di piacere, di diletto che nasce soprattutto dalle sensazioni forti ed energiche, le sensazioni piú piacevoli, e a una funzione di giovamento, di utilità, in quanto riempie, soddisfa, stimola all’agire.

Dei pensieri che si assiepano verso la fine del ’21 su questa nozione della poesia, si può ricordare il pensiero in cui egli insiste sul fatto che la poesia riempie l’animo, soddisfa la sete di piacere, di felicità che c’è nell’uomo e cosí facendo arricchisce la sua energia vitale[29].

C’è quindi come un finale punto di convergenza tra tutti questi filoni, tra quello di meditazione piú strettamente filosofico (l’antitesi natura/ragione che converge nell’esaltazione della vitalità, i pensieri sulla religione, che convergono sui dissensi con il cristianesimo in chiave di religione ascetica, che allontana l’uomo dalla sua meta di felicità concreta e di pienezza vitale) e questi pensieri sulla poesia: questa convergenza generale costituisce la piattaforma della poetica che presiede piú generalmente alla concezione dei canti del ’21-22.

Il pensiero ora citato che, insieme ad altri pensieri, insiste appunto su queste prospettive, dice infatti che «la lettura della vera poesia [...] destando mozioni vivissime, e riempiendo l’animo d’idee vaghe e indefinite e vastissime e sublimissime [...] lo riempie quanto piú si possa a questo mondo. [...] Certo è che un poeta con assai meno arte ed abilità di un eloquente, può lasciare un assai minor vôto nell’animo» [1574-1575]. È un continuo insistere su questi aspetti della poesia che riempie, che arricchisce di vitalità e che fa tutto ciò (con un raccordo, un sottofondo sensibilissimo e acutissimo di pensieri dello Zibaldone) mediante sensazioni piacevoli, energiche, ma insieme «vaghe e indefinite e vastissime e sublimissime». A questa direzione di poesia energetica si raccorda tutta la meditazione leopardiana sull’infinito, sulle parole poetiche, le parole «lontano, antico, remoto, eremo», che condensano un sentimento d’indefinito, di nostalgico, che riempie l’animo di sensazioni piacevoli, a loro modo forti[30].

Dal 1821 in poi, sempre piú Leopardi insiste su questo senso della poesia energica che stimola la vitalità, che riempie il vuoto dell’anima, che stimola alla vita[31]. Questo è confermato anche dalle molte e interessanti osservazioni che lo Zibaldone potrebbe offrirci in merito alla lunga meditazione leopardiana sulla lingua, alla cui importanza entro il panorama delle dottrine linguistiche di primo Ottocento si può soltanto accennare.

Importa invece cogliere la convergenza di queste discussioni sulla lingua nella formazione dello stesso linguaggio che sorregge la poetica attiva delle canzoni del ’21-22. Leopardi, legando anche questa discussione al fondamentale problema della natura e delle illusioni, contrappone alla lingua della ragione (matematica, gelida, che egli configura con una precisa lingua moderna, cioè il francese, la lingua della «steril filosofia»), la lingua poetica, cioè la lingua di certe letterature come quella greca nell’antichità e di quella italiana in tempi piú moderni.

Da questo punto di vista sono interessanti i pensieri riguardanti il linguaggio e lo stile poetico, come ad esempio quello in cui egli individua le caratteristiche fondamentali dello stile poetico nella rapidità e nella concisione:

La rapidità e la concisione dello stile [poetico], piace perché presenta all’anima una folla d’idee simultanee, o cosí rapidamente succedentisi, che paiono simultanee, e fanno ondeggiar l’anima in una tale abbondanza di pensieri, o d’immagini e sensazioni spirituali, ch’ella o non è capace di abbracciarle tutte, e pienamente ciascuna, o non ha tempo di restare in ozio, e priva di sensazioni. La forza dello stile poetico, che in gran parte è tutt’uno colla rapidità, non è piacevole per altro che per questi effetti, e non consiste in altro. L’eccitamento d’idee simultanee, può derivare e da ciascuna parola isolata, o propria o metaforica, e dalla loro collocazione, e dal giro della frase, e dalla soppressione stessa di altre parole o frasi ec. Perché è debole lo stile di Ovidio, e però non molto piacevole, quantunque egli sia un fedelissimo pittore degli oggetti, ed un ostinatissimo e acutissimo cacciatore d’immagini? Perché queste immagini risultano in lui da una copia di parole e di versi, che non destano l’immagine senza lungo circuito, e cosí poco o nulla v’ha di simultaneo, giacché anzi lo spirito è condotto a veder gli oggetti appoco appoco per le loro parti. Perché lo stile di Dante è il piú forte che mai si possa concepire, e per questa parte il piú bello e dilettevole possibile? Perché ogni parola presso lui è un’immagine ec. ec. Vedi il mio discorso sui romantici. Qua si possono riferire la debolezza essenziale, e la ingenita sazietà della poesia descrittiva (assurda in [se] stessa) e quell’antico precetto che il poeta (o lo scrittore) non si fermi troppo in una descrizione. Qua la bellezza dello stile di Orazio (rapidissimo, e pieno d’immagini per ciascuna parola, o costruzione, o inversione, o traslazione di significato ec.) [...]. [2041-2043][32]

È un pensiero importantissimo per la stessa ricerca completa di linguaggio che Leopardi verrà facendo per le canzoni del ’21-22, la ricerca di uno stile rapido e conciso che, come vedremo nel rapido esame di questi canti, si sposta assai sia dalla via eloquente e suntuosa delle canzoni patriottiche del ’18, sia anche, indubbiamente, dalla forma del linguaggio degli idilli del ’19 e ’20, e crea una nuova prospettiva di passaggio a una diversa poetica.

Questo stile rapido e conciso, che offre al lettore «idee simultanee», che fa «ondeggiar l’anima in una tale abbondanza di pensieri, o d’immagini», è coerente a quella ricerca di vitalità intensa, di fervore a cui corrispondeva del resto la sollecitazione del suo sistema sulla natura e sulle illusioni.

Sempre in questi pensieri cosí importanti per capire lo stile delle canzoni, Leopardi dirà ancora su Orazio, il cui esempio fu molto presente per le canzoni di questo periodo:

La bellezza e il diletto dello stile d’Orazio, e d’altri tali stili energici e rapidi, massime poetici, giacché alla poesia spettano le qualità che son per dire, e soprattutto lirici, deriva anche sommamente da questo, ch’esso tiene l’anima in continuo e vivissimo moto ed azione, col trasportarla a ogni tratto, e spesso bruscamente, da un pensiero, da un’immagine, da un’idea, da una cosa ad un’altra, e talora assai lontana, e diversissima: onde il pensiero ha da far molto a raggiungerle tutte, è sbalzato qua e là di continuo, prova quella sensazione di vigore [...] che si prova nel fare un rapido cammino, o nell’esser trasportato da veloci cavalli, o nel trovarsi in una energica azione, ed in un punto di attività [...] è sopraffatto dalla moltiplicità, e dalla differenza delle cose, (vedi la mia teoria del piacere) ec. ec. ec. E quando anche queste cose non sieno niente né belle, né grandi, né vaste, né nuove ec. nondimeno questa sola qualità dello stile, basta a dar piacere all’animo, il quale ha bisogno di azione, perché ama soprattutto la vita, e perciò gradisce anche e nella vita, e nelle scritture una certa non eccessiva difficoltà, che l’obbliga ad agire vivamente. E tale è il caso d’Orazio, il quale alla fine non è poeta lirico che per lo stile. Ecco come lo stile anche separato dalle cose, possa pur essere una cosa, e grande; tanto che uno può esser poeta, non avendo altro di poetico che lo stile: e poeta vero e universale, e per ragioni intime, e qualità profondissime, ed elementari, e però universali dello spirito umano. [2049-2051][33]

Pensiero densissimo, non solo per l’esemplificazione che continuamente rimanda a motivi di fondo. Lo stile energico e conciso è soprattutto valido in quanto fa provare sensazioni di vigore e soprattutto perché l’uomo ha bisogno di azione, perché ama soprattutto la vita; ma interessante, in questa paradossale estremistica affermazione basata su Orazio, è che tutto ciò può essere anche solo per ragioni di stile. È una punta estrema del pensiero leopardiano, che verrà in seguito rimodellata alla luce di altri pensieri già del 1823, quando Leopardi afferma che nessun vero poeta è tale unicamente per lo stile, se allo stile non corrisponde una adeguata importanza e densità delle “cose” espresse in poesia.

Ma in questo momento, preso da questa sua volontà di creare un linguaggio, uno stile rapido e conciso, arriva persino a cercare una possibilità di arricchimento della vita anche attraverso le forme unicamente stilistiche della poesia, come ora nel caso di Orazio.

Questi pensieri aprono direttamente alla prospettiva poetica dei canti del ’21-22.


1 Tutte le opere, I, p. 1098.

2 Tutte le opere, I, p. 1098-1099.

3 Tutte le opere, I, p. 1122.

4 Cfr. Tutte le opere, I, pp. 1121-1122.

5 Cfr. Tutte le opere, I, pp. 367-371.

6 Cfr. Tutte le opere, I, pp. 1114-1115.

7 Cfr. C. Luporini, «Leopardi progressivo», in Filosofi vecchi e nuovi, Firenze, Sansoni, 1947, pp. 183-275 (poi in ed. autonoma Roma, Editori Riuniti, 1980, nuova ed. accresciuta Roma, Editori Riuniti, 1993).

8 Cfr. Tutte le opere, II, p. 141.

9 Cfr. Tutte le opere, II, p. 62.

10 Tutte le opere, II, pp. 180-181.

11 Cfr. Tutte le opere, II, pp. 182-190.

12 Cfr. Tutte le opere, II, p. 189.

13 Tutte le opere, II, p. 97.

14 Cfr. Tutte le opere, I, pp. 337-338.

15 Cfr. G. Getto, Gli Inni cristiani, in Saggi leopardiani, Firenze, Vallecchi, 1966, pp. 239-272 (già edito in Aa.Vv., Studi in onore di Vittorio Lugli e Diego Valeri, parte seconda, Venezia, Neri Pozza, 1961, pp. 447-472).

16 Cfr. Tutte le opere, I, pp. 1382-1383.

17 La lettera si legge nell’Epistolario di Giacomo Leopardi, a cura di F. Moroncini cit., II, pp. 104-105. La citazione è da p. 105.

18 Tutte le opere, I, p. 34.

19 Cfr. la lettera a Monaldo Leopardi del 27 maggio 1837 in Tutte le opere, I, p. 1419.

20 Tutte le opere, I, p. 1381.

21 Tutte le opere, II, p. 108.

22 Tutte le opere, II, p. 149.

23 Cfr. il pensiero del 25 novembre 1820, in Tutte le opere, II, pp. 134-135.

24 Tutte le opere, II, p. 634.

25 Tutte le opere, II, pp. 470-471.

26 Tutte le opere, II, p. 109.

27 Tutte le opere, II, p. 633.

28 Tutte le opere, II, p. 106.

29 Cfr. Tutte le opere, II, p. 444.

30 Cfr. fra i molti pensieri almeno quello del 13 dicembre 1821, in Tutte le opere, II, p. 587.

31 Lo si vedrà poi meglio a proposito di alcuni pensieri dello Zibaldone del 1823.

32 Tutte le opere, II, p. 546.

33 Tutte le opere, II, p. 547.